Viviamo in un mondo dove si scrive tanto, si parla ancora di più, ma spesso si tace proprio là dove servirebbe la voce più autentica: dentro di noi. Abbiamo imparato a nominare gli oggetti, a descrivere i tramonti, a spiegare i processi. Ma quando il cuore si appesantisce o la mente si ingarbuglia, spesso restiamo mute.
Non è solo timidezza o paura, tavolta ci mancano proprio loro: le parole. Quelle giuste. Quelle che non etichettano, ma che accolgono.
In questo spazio interiore fatto di sfumature e silenzi, la scrittura può diventare un ponte, un gesto di ascolto, una pratica di cura.
Ci sono giorni in cui il corpo parla con segnali impercettibili — una pressione sul petto, una stanchezza che non riguarda le ossa, ma l’anima — eppure, quando provi a raccontare quello che provi, le parole scivolano via. Oppure si ripetono, spente, generiche, incapaci di contenere la verità del tuo sentire.
È come se qualcosa di profondo si agitasse dentro di te, ma il linguaggio a disposizione fosse troppo povero per restituirne il senso. Così taci. O dici poco. O ti rifugi in parole sbagliate che finiscono per semplificare ciò che meriterebbe di essere onorato.
Sin da bambine ci hanno spesso educate a distinguere le emozioni con un dizionario elementare: “felice” o “triste”, “giusta” o “sbagliata”, “accettabile” o “esagerata”.
Ma la verità è che tra questi poli esistono universi interi: nostalgia, vergogna, melanconia, inquietudine, tenerezza, spaesamento. Quando non sappiamo come chiamare ciò che proviamo, rischiamo di non comprenderlo. E quello che non comprendiamo, spesso ci comanda in silenzio.
Le parole che scegliamo non sono neutre. Portano memoria, vibrazione, esperienza. Quando ne trovi una che corrisponde davvero a ciò che senti — una parola precisa, viva, piena — accade qualcosa di magico: ti riconosci. Anche se nessuno ti ascolta, anche se nessuno ti crede. Tu ti riconosci.
Nominare un’emozione è offrirle cittadinanza interiore. È dirle: “Ti vedo. Hai diritto di esistere.”
Se abbiamo a disposizione solo poche parole per dire ciò che sentiamo, finiamo per ridurre anche la nostra consapevolezza. Più il linguaggio si amplia, più lo spazio dentro di noi si apre. Quando cominci a cercare parole più sfumate, immagini più fedeli, ti accorgi che non solo capisci meglio ciò che ti attraversa, ma riesci anche a sostenerlo, a starci con dolcezza.
Ci sono emozioni che non urlano, che non spingono, che si insinuano in punta di piedi, come luce filtrata da una tenda al mattino. Sono quelle emozioni minori, ma non per questo meno potenti. E proprio perché non hanno un nome, ci destabilizzano, ci disorientano, ci fanno sentire scollegate.
Trovare un nome significa restituire loro senso. E restituire a te stessa un luogo in cui abitarti.
Attribuire loro un nome , infatti, significa restituire ordine a quel caos interno. Significa costruire una mappa in quel territorio indistinto, significa trovare una casa per quelle emozioni, e con esse, un rifugio per te stessa. Perché quando riconosci ciò che senti, smetti di essere una viaggiatrice senza meta e inizi a essere l’abitante consapevole del tuo mondo interiore.
Le parole, allora, diventano semi preziosi da piantare con cura nella tua scrittura. Ogni lettera è una porta aperta verso un dialogo più profondo con te stessa. Prendi per esempio la “S” di solitudine: non è solo una parola, è un invito a esplorare. Che tipo di solitudine abiti oggi? È una solitudine scelta, come un giardino segreto dove coltivi la tua crescita? Oppure è una solitudine imposta, un deserto arido che ti pesa sul cuore?
Ogni risposta, anche la più fragile o confusa, è un modo nuovo di stare con te stessa. È un passo verso la consapevolezza, un gesto di cura verso la tua interiorità. E più ti immergi in questo dialogo, più la scrittura diventa uno specchio fedele in cui riconoscere ogni sfumatura del tuo essere — anche quelle più sottili e silenziose.
Prendi un’emozione che senti spesso ma che non riesci a spiegare.
Scrivila. Non per giustificarti, ma per osservarla.
Poi prova a inventare un nome, come faresti con una creatura nuova. Nominarla sarà il primo passo per accoglierla.
Scrivere è uno strumento potente per entrare in contatto con te stessa. Mettere le parole su carta ti permette di ascoltare ciò che senti davvero, al di là del rumore della mente o delle distrazioni quotidiane. È un gesto di cura: accogliere senza giudizio pensieri ed emozioni, anche quelli più difficili o nascosti. Attraverso la scrittura impari a riconoscere e rispettare la tua interiorità, creando uno spazio in cui puoi prenderla per mano e accompagnarla, passo dopo passo, verso maggiore chiarezza e benessere.
Ogni sera, prima di dormire, chiediti: Qual è stata oggi l’emozione più silenziosa. Non quella più forte. Ma quella che ti ha sfiorata piano. Poi raccontala: come un paesaggio, come un colore, come una nuvola.
E se non ha un nome, donaglielo tu. Dare un nome alle cose è sempre un modo per amarle un po’ di più.
Scrivere ogni giorno, anche solo per cinque minuti, è dire a te stessa: “Ti vedo. Ti ascolto. Ti accolgo.”
Come scrive la ricercatrice e autrice Brené Brown:“Ciò che è nominabile è gestibile.”
Quando impari a nominare ciò che senti, smetti di combatterlo nel buio. Cominci a farci amicizia, a trasformarlo, a guarirlo.
Ogni parola trovata è un frammento di te che torna al suo posto, che smette di perdersi, che si lascia abbracciare.